

Il prequel di “IT” espande la mitologia di Stephen King con molta ambizione e qualche déjà-vu: tra palloncini rossi, Bill Skarsgård, paure infantili e l’ombra dei ragazzi di Hawkins
La cittadina di Derry, nel Maine, è una delle più cinematograficamente terrificanti in cui ci si possa imbattere. D’altra parte, è la casa di Pennywise, il diabolico clown dal sorriso malefico che per anni ha alimentato gli incubi di chi, finito di vedere “IT”, hanno preferito andare a letto lasciando la luce accesa.
Se il libro di Stephen King ha funzionato così bene nella mitica prima trasposizione degli anni ’90 e poi al cinema con i due capitoli diretti da Andy Muschietti, può dirsi lo stesso con la serie tv prequel derivata da esso? Welcome to Derry ha la giusta ambizione di rappresentare un nuovo tassello nella mitologia horror di IT, ma ha anche un tempismo non proprio azzeccato nel portare nel mondo delle serie un racconto di un gruppo di ragazzini “loser” che uniscono le forze contro le proprie paure e insicurezze. Vi ricorda qualcos’altro, vero?
Welcome to Derry e i legami con IT: Skarsgård, gli Hanlon, Paul Bunyan
Le premesse sono più che gustose: Welcome to Derry (disponibile su Sky e su NOW dal 27 ottobre con un episodio a settimana in contemporanea con gli Stati Uniti; in tutto la prima stagione è composta da otto episodi) ci porta nel 1962, esattamente 27 anni prima degli eventi narrati in “IT”. Ricordiamo, infatti, che King ha voluto che l’entità che si cela dietro Pennywise e le varie visioni che terrorizzano i personaggi del racconto riemergono ogni 27 anni.
Il legame con i due film di Muschietti, dunque, è garantito. Così come il coinvolgimento dello stesso regista, che ha creato e prodotto la serie insieme a Barbara Muschietti. I riferimenti alle pellicole cinematografiche non si fermano dietro le quinte: la presenza di Bill Skarsgård, interprete di Pennywise e qui anche produttore, permettono al pubblico di ritrovato l’identico personaggio terrificante visto al cinema.

Sia nella serie che nei film, poi, c’è un cognome che torna: Hanlon. Welcome to Derry ricostruisce infatti anche la storia della famiglia di Mike, l’unico dei “perdenti” della storia che decide di restare nella cittadina anche dopo che il gruppo, nel primo capitolo del film, riesce (o almeno penso di averlo fatto) a sconfiggere Pennywise.
Nella serie tv non vediamo Mike, che deve ancora nascere, ma vediamo la versione giovane di suo padre Will (Blake Cameron James) e suo nonno Leroy (Jovan Adepo). Proprio quest’ultimo, a inizio serie, si trasferisce a Derry con la moglie Charlotte (Taylour Paige). Leroy lavora nell’esercito, e finisce per essere anche lui coinvolto nelle vicende sovrannaturali che travolgono il figlio e che, 27 anni dopo, riguarderanno anche il nipote.

E poi c’è Paul Bunyan: gli sceneggiatori della serie si divertono a inserire un non tanto velato easter egg relativo all’enorme statua che Derry dedicata alla figura del taglialegna tanto celebrato negli Stati Uniti e in Canada. Una statua che poi diventa protagonista delle orribili visioni dei ragazzini protagonisti del film, e che in Welcome to Derry è invece ancora in fase di costruzione.
Guardare alla voce: “espandere la mitologia”

Welcome to Derry è frutto di un’operazione molto attenta e chiara: espandere la mitologia di una storia che, negli anni Novanta come oggi, riesce ancora spaventare e ad avere fascino. Ci riesce perché l’entità malvagia che si cela dietro Pennywise sfrutta le debolezze degli esseri umani, le loro incertezze e paure, andando a scavare nel sentire comune di un’epoca e nelle paure più ancestrali dell’uomo.
In un periodo storico in cui gli Intellectual Property sono come oro per le case di distribuzione, Welcome to Derry è una naturale e ovvia prosecuzione dell’onda lunga dei due film. L’idea, dichiarata dagli stessi Muschietti, è di creare una storia della durata di tre stagioni, che s’inserisca nella mitologia di “IT” senza snaturarlo e soprattutto cercando di essere coerente con quanto il pubblico già sa.
Questa è la sfida più difficile, perché sappiamo che Pennywise tornerà a esigere la sua dose di carne umana 27 anni dopo e poi 27 anni dopo ancora, quindi a fine serie non si potrà mettere la parola fine alla sua saga. Welcome to Derry dovrà quindi trovare altri spunti che sappiano diventare il motore della narrazione e che riescano a sviluppare archi narrativi originali e differenti dai film, tanto da dare un senso al prequel.
L’ambizione di Muschietti…

Welcome to Derry, insomma, non è una di quelle serie tv improvvisate: è stata pianificata, pensata, scritta nei dettagli. L’obiettivo è fare in modo che, se al cinema “IT” non avrà un seguito (il Capitolo Due chiude di fatto gli eventi narrati nel libro e le vicende dei protagonisti), si punta a fare in modo che il mito possa proseguire altrove.
Muschetti scrive una storia che quindi si aggancia bene a quella vista sul grande schermo: ambiziosa nella sua messa in scena, con i momenti puramente horror realizzati accuratamente e perfettamente inseriti nel genere, senza fare sconti solo perché siamo in tv; ma anche capace di tenere l’equilibrio tra ciò che già sappiamo e ciò che ci è ancora ignoto.
In ballo, nella serie, c’è anche l’Esercito Americano e una ricerca cominciata prima ancora della missione intrapresa dai giovani al centro della trama. Sovrannaturale e thriller si mescolano, ballano una coreografia che fa in modo di coinvolgere subito il mondo degli adulti nelle trame di Pennywise, ricordandosi di un dettaglio fondamentale: chi è adult* oggi, è stato bambin* in passato. E le personalità che si portano dietro sono frutto di esperienze, ricordi e anche traumi di quando erano piccol*.
E dunque si torna a parlare di infanzia, alla maniera di King: non sempre e solo bei ricordi, ma anche paure, insicurezze, soprusi. Così come ha fatto lo scrittore nel suo libro, anche Welcome to Derry riesce a declinare tutto quanto in una morale che vede, alla fine, trionfare l’amicizia e il coraggio. Uniti si vince, si conosce se stessi e le paure che a volte ci dominano appaiono più piccole di quello che sembrano. In questo, Welcome to Derry è più che rispettoso del materiale da cui deriva.
… e un déjà-vu inevitabile

A fronte di tutto questo, impossibile davvero non ritrovare nella storia di questi ragazzini alle prese con una forza sovrannaturale che vuole dominare sulle loro vite quelle sensazioni che già abbiamo visto in Stranger Things. Certo, la mitologia di “IT” è nata molto prima del debutto della serie dei fratello Duffer, ma Welcome to Derry giunge al pubblico dopo.
La sensazione di aver già vissuto certe sensazione c’è: dalla nascita di un’amicizia destinata a durare per sempre, alla condivisione di momenti terrificanti che sanno anche di sfide con l’ignoto e un futuro che spaventa. I protagonisti di Welcome to Derry vivono anche un momento intenso in sella alle loro biciclette, una fuga che genera tensione e tenerezza al tempo stesso e non può farci pensare ai ragazzini di Hawkins per cui abbiamo fatto il tifo per cinque stagioni.

Welcome to Derry ha comunque dalla sua due vantaggi che Stranger Things non ha: il primo è rappresentato dalla dose di horror di cui è intriso il racconto. Pennywise come il Mind Flayer? Forse, ma nell’iconografia il clown con il palloncino rosso vince sui Demogorgoni: supera le generazioni e, anche chi non ha visto i film o letto il libro di King, riconosce immediatamente il personaggio.
E poi la collocazione temporale: Welcome to Derry torna nei primi anni Sessanta, staccandosi dalla tendenza di cinema e tv odierna di posizionare le proprie storie d’epoca tra gli anni Ottanta e Novanta. Questo permette di allestire una scena nettamente differenze e di sfruttare gli angoli bui di quel periodo storico: razzismo, Guerra Fredda, colonizzazione degli indiani d’America.
In un progetto come questo che non può far nulla per evitare il confronto con la “concorrenza”, si cercano differenze specifiche ma forti, d’impatto. Una firma propria, che possa creare un universo in cui addentrarsi dimenticandosi (non subito) di qualche similitudine di troppo con un’altra produzione recente.





